sabato 11 ottobre 2008

L’AMERICA LATINA NON È IMMUNE DALLA CRISI DEL NEOLIBERISMO, MA NON È MAI STATA COSÌ VACCINATA

Gennaro Carotenuto
(10 ottobre 2008)

L’America latina non è immune dalla crisi dell’economia statunitense e non sarà risparmiata dalla recessione mondiale, ma solo dieci anni fa sarebbe stata nell’occhio del ciclone. Le stime per il 2009 limitano la crescita della regione tra il 3.5% e il 4% contro il 4.6% del 2008. Appena una decelerazione che però nasconde alcuni cambiamenti importanti. Tasse sull’agroexport in Argentina, privatizzazione del petrolio in Messico: alcuni dei punti qualificanti dell’agenda politico-economica 2007-2008 sono stati semplicemente spazzati via dall’incedere degli eventi.
Il continente è dunque in una situazione molto migliore rispetto a quella nella quale sarebbe stata al tempo del neoliberismo più ortodosso. Nonostante non possa non temere una recessione globale, crescerà meno, incasserà meno dalla vendita delle materie prime, arriveranno meno rimesse dai migranti, l’America latina ha un sistema capitalista più solido e meno dipendente dalle decisioni del Nord. Sarà più difficile continuare a ridurre la povertà ma anche i costi umani saranno minori. Per il momento gli Stati latinoamericani –nonostante non possano escluderlo per il futuro- non hanno bisogno di piani di salvataggio per il sistema bancario. La crescita nell’ultimo decennio del commercio Sud-Sud e l’aumentare delle relazioni con l’Asia e soprattutto con la Cina, ma soprattutto il fatto che la regione abbia rifiutato l’ALCA, il trattato di libero commercio con gli Stati Uniti, sono i fattori che rendono oggi l’America latina meno sensibile alla recessione del mondo occidentale.

Il FMI ha sempre difeso tutte le dittature fondomonetariste della storia latinoamericana; erano loro che decidevano la politica economica. Lo facevano facilmente, come in esperimenti in laboratorio, proibendo i sindacati, i movimenti sociali, reprimendo il dissenso e l’opposizione politica, spesso eliminandola fisicamente. Ha difeso anche scelte scellerate di privatizzazioni selvagge che hanno avuto conseguenze nefaste sulla vita delle persone causando direttamente morte per fame e disperazione ovunque tali ricette sono state applicate. Più di recente ha contribuito ad organizzare il golpe in Venezuela dell’11 aprile 2002.
E’ evidente così che la Patria grande latinoamericana abbia sviluppato anticorpi e istituzioni come il Banco del Sud in grado di essere una risposta etica ed integrazionista al delirio monetarista. E non deve sorprendere che un dirigente politico integrazionista come Hugo Chávez consideri il Fondo Monetario Internazionale come il primo responsabile della crisi e inviti lo stesso FMI ad “a convocare una sessione che abbia all’ordine del giorno la dissoluzione dello stesso. E invece –prosegue il dirigente politico bolivariano- lo scandalo è che continuino ad offrire ricette e a presentarsi come i medici in grado di salvare l’economia mondiale quando invece bisognerebbe smantellare l’intera architettura finanziaria mondiale imposta dal Nord al Sud del mondo”.
Ecco le schede di cinque dei principali paesi della regione.
ARGENTINA
L’Argentina è con il Messico il paese latinoamericano più esposto. Continua ad avere l’economia più fragile e più indebitata e, al contrario degli altri paesi è molto più difficile per il paese accedere al credito internazionale che ancora non ha perdonato il default del 2002. Inoltre la crescente dipendenza dall’agroexport, soprattutto della soia, sarà esposto alla recessione mondiale che sta abbassando le ordinazioni.
BRASILE
I primi mesi del 2008 erano stati di grande euforia per la finanza brasiliana. I successi del governo integrazionista avevano portato la borsa di San Paolo al massimo storico a maggio. Da allora, ha già perso un quarto del suo valore. Da una parte il Brasile, trasformatosi in attore globale, è più esposto all’economia globalizzata e la svalutazione del Real rispetto al dollaro (-15% da maggio) espone all’aumento dell’inflazione sull’import. Dall’altra finora il sistema bancario brasiliano sembra essere particolarmente solido e benedice una legislazione particolarmente rigorosa.
CILE
A Santiago gli allievi prediletti del Fondo Monetario Internazionale sono perplessi. Per quello che può valere oggi il parere di Moody il Cile ha il sistema bancario più forte al mondo alla pari con quello canadese e davanti alla Svizzera. Hanno un’economia dal punto di vista monetarista straordinariamente solida. Lo Stato, piccolissimo, è addirittura in attivo, tenendo investiti all’estero per almeno 50 miliardi di dollari, un terzo del PIL, e quando in questi anni il prezzo del rame è andato alle stelle, non si sono fatti commuovere e non un solo peso è stato destinato ad aumentare la spesa pubblica o a una pur pallida redistribuzione. Di conseguenza l’abbassamento del prezzo del rame non causerà alcun problema e chi è povero sa già fin d’ora che continuerà a restare tale.
MESSICO
Il Messico è nell’occhio del ciclone. In tutti questi anni di crescita è sempre cresciuto meno degli altri paesi della regione ed adesso la gelata sarà ancora più dura: poco più dell’uno per cento nel 2009. Ha un sistema bancario completamente globalizzato (soprattutto spagnolizzato e “los gallegos” avranno bisogno di ritirare liquidità) e, quel ch’è peggio continua a valere il detto “così lontano da dio e così vicino agli Stati Uniti”. Dal paese “fratello” arriveranno meno rimesse degli emigrati. Ad agosto sono state il 12% in meno e le previsioni di settembre e ottobre sono ancora più nere. D’altra parte verranno anche molti meno turisti. L’unica cosa che poteva salvare il Messico e che permetteva al governo di Felipe Calderón di supportare la spesa pubblica, era il petrolio ma la riduzione del prezzo causa ora il panico nell’esecutivo. Dopo le banche, il Messico potrebbe essere il primo stato a dichiarare bancarotta in questa crisi.
VENEZUELA
L’analisi di Chávez è preoccupata: “non siamo immuni”. Per tutta l’America latina nel prossimo futuro sarà più difficile esportare materie prime a buon prezzo, e il calo del prezzo del petrolio passato da circa 150 dollari a circa 90 al barile in poche settimane, è paradigmatico. La maggior parte dei paesi dipende dall’export di materie prime e quando queste, come nel caso venezuelano, sono state reinvestite per finanziare un processo rivoluzionario e redistributivo come quello bolivariano, tale processo potrebbe incontrare delle difficoltà. D’altro canto però tenderà a raffreddarsi la forte inflazione, che la grande crescita economica degli ultimi anni ha risvegliato. Ciò in un contesto nel quale la forte dipendenza del Venezuela dalle importazioni potrebbe divenire un problema più grave in un paese che continua ad essere schiavo della monocultura del petrolio. Se infatti il prezzo del petrolio continuerà a mantenersi relativamente basso, anche in considerazione della recessione nel Nord che fa frenare i consumi, la bilancia dei pagamenti diventerà molto meno favorevole.

fonte www.gennarocarotenuto.it

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