martedì 28 aprile 2009

Silvio Berlusconi e il 25 aprile



Di Annalisa (del 25/04/2009 @ 08:36:55, in Antifascismo, linkato 142 volte)


Vignetta Mauro Biani

Liberazione occupata
di Alessandro Portelli
Fonte: Il Manifesto 23 aprile 2009

Avevamo un Presidente Operaio. Il terremoto ci ha regalato un Presidente Odontotecnico che aggiusta le dentiere alle anziane signore. Adesso, grazie ai buoni uffici di Franceschini, abbiamo anche un Presidente Partigiano che si prepara ad andare a celebrare il 25 aprile.

Io non capisco che bisogno c'era di insistere per regalare a Berlusconi un ennesimo palcoscenico. Berlusconi non viene il 25 aprile perché finalmente si è convinto che i partigiani avevano ragione, che la Costituzione non è bolscevica, e che la colpa delle Fosse Ardeatine è dei nazisti. No, viene il 25 aprile perché alla fine la bulimia prevale sull'ideologia: «Non lo lascio alla sinistra», ha detto. Come dire che non poteva sopportare che esistesse nella sfera pubblica uno spazio non occupato da lui e non definito dalla sua presenza.

Il migliore omaggio che potesse rendere alla Resistenza , Berlusconi lo faceva standosene in famiglia il 25 aprile. Era un modo per dire che l'antifascismo è una differenza. Non esclude nessuno, ma ridefinisce chi include.

Ora, il 25 aprile che viene non ridefinisce Berlusconi, ma è Berlusconi che venendo ridefinisce il 25 aprile. Vi ricordate quando dicevamo, ingenui e settari, che «la Resistenza è rossa e non è democristiana»? Bene, non il Presidente Partigiano ha già annunciato che verrà a spiegarci che non è né rossa (Deus avertat) ma non è nemmeno democristiana; verrà a spiegarci che i partigiani (quelli buoni) hanno combattutto affinché l'Italia fosse come l'ha fatta diventare lui.

Abbiamo già visto episodi abbastanza grotteschi in proposito, come l'intervista in cui nientemeno che La Russa, nostalgico di Salò, ci ha spiegato che la Resistenza va bene, ma quella dei comunisti no perché loro combattevano per lo stalinismo e non per la libertà. Che dobbiamo prendere lezioni di libertà da un simile figuro è segno di che disastri stanno succedendo al linguaggio, oltre che alle idee.
Ci fosse venuto di sua iniziativa, sarebbe un'altra cosa: sarebbe un segno di evoluzione, di riflessione, magari di ripensamento. Ma viene degnandosi di aderire all'insistente invito del «leader» dell'«opposizione», e io non vedo che bisogno ci fosse di insistere per offrire a Berlusconi un'ennesima piattaforma, un ennesimo spazio di esibizione.

Capisco l'idea di recuperarlo a una cultura democratica che nasce dalla Resistenza; ma questo recupero dovrebbe avvenire, se mai, sui contenuti e sui valori, non sulle cerimonie. Se no, tanto vale offrirgli anche il palco del Primo Maggio a San Giovanni, magari con il fido Apicella, e poi fregarci le mani dicendo che l'abbiamo recuperato al movimento operaio. Che, peraltro, in quanto Presidente Operaio, era già cosa sua.

venerdì 17 aprile 2009

Perché ammazzarono i bambini?

RIVISTA “SEMANA”

Il massacro di San José di Apartadó scosse il paese, specialmente per i bambini che furono assassinati. Quando accadde, il governo difese i militari e ci furono molti tentativi di sfuggire alla giustizia, atteggiamento che contrasta con quello adottato l'anno scorso rispetto ai falsi positivi, quando il governo quando destituì i responsabili

Nel febbraio del 2005 Armando Gordillo conobbe il paradiso ed il cuore delle tenebre in meno di una settimana. Il capitano dell'Esercito si trovava nelle esuberanti spiagge di Capurganá, nel mare dei Caraibi, occupandosi delle star televisive che registravano il reality Desafio 2005, quando ricevette una chiamata nella quale gli veniva ordinato di recarsi a Nuova Antiochia, una zona nei pressi di Apartadó, perché sarebbe iniziata l'operazione 'Fenix', programmata dalla Brigata XVII di Urabá. Era il principio di uno degli episodi più sanguinosi della guerra in Colombia: il massacro di Mulatos e La Resbalosa.

Quando Gordillo ricevette la chiamata, la Brigata aveva ricevuto da appena una settimana il colpo più duro degli ultimi anni, ed il peggiore nell'era del presidente Álvaro Uribe. Nella zona El Porroso, di Mutatá, un ufficiale e 18 soldati erano morti in un agguato teso dalle Farc. La Brigata non aveva potuto spiegare l’accaduto. Si disse che c’erano stati problemi di comunicazione, che si era trattato di un'imboscata; in ogni caso, il generale Héctor Fandiño e tutti gli alti ufficiali della Brigata erano addolorati ed umiliati per questo colpo che valse perfino una sanzione al Generale.

Per questo motivo Gordillo non si stupì che lo chiamassero a fare parte di un'azione che coinvolgeva vari battaglioni sul canion del fiume Mulatos, dove si sapeva avevano la loro tana i guerriglieri dei fronte 5 e 58 delle Farc, specialmente 'Samir', un temuto insorto che si accampava frequentemente nella zona. Quando arrivò a Nuova Antiochia il 17 febbraio, non si stupì neanche di trovare riuniti i membri del suo battaglione, ufficiali e soldati, con un gruppo paramilitare. Non era la prima volta che questo succedeva. Tutti sapevano che i Blocco Eroi di Tolová che apparteneva a 'Don Berna', aveva il suo centro di operazioni nel poggio de la Hoz, dove si stavano programmando i dettagli dell'operazione. Due mesi addietro si era smobilitato il Blocco Bananeros di Urabá, e si supponeva che i suoi uomini erano in fase di piena reincorporazione alla civiltà, sotto il comando di Ever Veloza, 'H. H..'

Gordillo dice che quando arrivò a Nuova Antiochia i suoi superiori del Battaglione Vélez, il tenente colonello Orlando Espinoza ed il maggiore José Fernando Castano, avevano coordinato tutto con i paramilitari degli Eroi di Tolová. In realtà, la compagnia Alacràn di un altro battaglione, quello di Controguerriglia 33, era partita già in direzione della zona La Nieves. Questo gruppo era guidato da un paramilitare appena smobilitato conosciuto come 'Melaza', vecchio conoscente dei militari, assiduo visitatore della Brigata XVII e che non ebbe problema a camuffarsi e trasportare un fucile ufficiale, mentre comunicava via radio con le altre compagnie che si trovavano nel territorio.

A Gordillo assegnarono un gruppo paramilitare coordinato da alias '44', del quale facevano parte vari sbirri come 'Kiko', 'Cobra' e 'Pirulo.' "Essi dissero che conoscevano il territorio, sapevano di accampamenti delle Farc nella zona del canion di Mulatos… che quell'operazione era già stata discussa con comandi superiori", disse Gordillo alla Procura.

Gli avvenimenti che seguirono mostrano che l'operazione aveva il marchio della vendetta. Le vittime dell'incursione furono civili, molti di essi bambini che morirono sgozzati e squartati, in un atto di barbarie nel migliore stile dei massacri di 'chulavitas' dell'epoca di La Violenza.

Le truppe avanzavano lentamente, fermando al loro passaggio i pochi contadini che transitavano per quelle strade. 'Melaza' guidava gli uomini del Battaglione 33 e frequentemente metteva in contatto l'ufficiale che comandava il gruppo con le truppe che erano rimaste dietro. Adriano José Canuto, Melaza', aveva allora 25 anni e lavorava frequentemente per l'Esercito. "Guadagnava 15.000 pesos giornalieri e bonifici, in base ai risultati che dell'operazione", dice. Così aveva fatto da quando era entrato nei paramilitari in 1997, e lo fece varie volte dopo avere consegnato le armi, "previa autorizzazione del centro di riferimento per smobilitati", spiega.

Da bambino era stato mulattiere e conosceva come i palmi delle sue mani le strade di Urabá. In particolare era stato in varie occasioni a San José de Apartadó. Come poteva non conoscere quelle scorciatoie se nell'anno 2001 aveva partecipato al massacro di sei contadini in questa regione. Quella volta era incappucciato, ma molti lo riconobbero. 'Melaza' era un nome associato con morte.

Le truppe erano informate che c'era un miliziano nella zona La Nieves ed all'alba del 20 di febbraio accerchiarono l'umile fattoria. "Arrivammo intorno alle 6 della mattina. Era una fattoria in mezzo al monte. Circondammo la casa ed il tenente Rodríguez mise la canna del fucile alla finestra. Il miliziano pose mano ad un AK-47. Allora sparammo tutti contro la fattoria. La casa rimase come un colabrodo e nonostante fosse ferito a morte, il miliziano continuava a sparare. Quando tutto si calmò, vedemmo a un bambino nero e la moglie del miliziano che uscì con una bambina di 2 anni nelle braccia completamente insanguinata. Mi hanno ucciso la bambina', disse. Non si era nemmeno resa conto di essere completamente nuda. Io mi avvicinai e le dissi: 'Signora, vada a mettersi qualcosa ".

Effettivamente, Marcelino Moreno, 'Macho Rucio', era un miliziano e, apparentemente, la sua morte avvenì in combattimento. La bambina era ferita, ma gli diedero i primi aiuti, poi fu evacuata in un elicottero e sopravvisse. Fortuna che non avevano i figli di Luis Eduardo Guerra ed Alfonso Tuberquia il cui incontro fu con la pattuglia che stava più indietro.

Senza pietà

Quella domenica, quando Luis Eduardo Guerra sentì in lontananza gli spari e l'elicottero dell'Esercito, si dissuase dall’uscire a raccogliere il cacao. Guerra era il più importante leader contadino della comunità di pace di San José de Apartadó. Questa comunità era nata una decade addietro come un esperimento di resistenza civile di fronte alla guerra, sotto la tutela speciale del sacerdote gesuita Javier Giraldo e dell'ex sindaco di Apartadó Gloria Cuartas. La comunità era stata oggetto di ogni tipo di critica e di accuse da parte del governo di una supposta tolleranza nei confronti delle Farc. Era stata anche vittima di innumerevoli attacchi e assassini selettivi. Luis Eduardo Guerra, nonostante si fosse formato nei campi, era un uomo col dono della parola, con un pensiero talmente strutturato che generava sospetto nei suoi avversari che lo consideravano un ideologo della guerriglia. Era uno di quei casi eccezionali di un uomo di talento ed autodidatta. Si alzava alle 4 dalla mattina ad ascoltare notizie e dopo le giornate nei campi, si metteva a leggere storia, filosofia, era molto disciplinato", racconta uno dei leader della comunità. In realtà, Guerra era una specie di cancelliere della comunità di pace.

Il giorno seguente, lunedì 21 di febbraio, Guerra decise di uscire finalmente verso la sua coltivazione, con la sua compagna, Bellanira, di 17 anni, suo figlio Deiner, di 11, che procedevano sul dorso della mula, e il suo fratello di mezzo Darío. Dopo un breve percorso, verso le 8 della mattina, un gruppo di militari uscì dalla sterpaglia e li fermò. Da principio Darío temette la cosa peggiore. Si rese conto che l'atteggiamento degli uniformati era furbo e strano. Ebbe il presentimento - apparentemente corretto - che coi militari ci fossero dei paramilitari. Allora, quando vide che tutta l'attenzione dei soldati si concentrava su Luis Eduardo, sfuggì dietro la mula e si allontanò come poté, fuggendo tra la sterpaglia. Poco dopo udì grida di dolore e di spavento. E nessun sparo. Li avevano ammazzati con bastoni e machete. E sgozzati. E benché Gordillo dica che non sa niente di queste prime morti, gli investigatori ipotizzano che erano le sue truppe formate da militari e paramilitari a trovarsi in quel posto.

Verso mezzogiorno, nel sentiero La Resbalosa, a quattro ore da lì, la scena si ripeté con ulteriori sevizie. Secondo varie testimonianze in potere della giustizia, e quella del proprio capitano Gordillo, i paramilitari, al comando di '44', avanzarono di circa 500 metri rispetto all’esercito. I paramilitari giunsero alla casa di Alfonso Bolívar, altro importante leader della comunità di pace, quando la famiglia stava pranzando. Incominciò uno scambio di spari con un uomo chiamato Alejandro Pérez - guerrigliero delle Farc, come ha provato la Procura - chi riuscì a correre alcuni metri prima di cadere crivellato. I paramilitari detonarono varie cariche esplosive contro la casa e videro come cinque uomini uscirono correndo verso il monte. Erano Bolivar ed i suoi lavoratori. Quello che seguì è indescrivibile.

Jorge Luis Salgado, alias 'Kiko', paramilitare dei Blocco Eroi di Tolová, ora in prigione, raccontò alla Procura quello che accadde quel pomeriggio: "… vidi che c'era una donna morta nella casa… improvvisamente riferirono ai comandanti di alcuni bambini che si trovavano dentro la casa… credo che fossero sotto il letto… furono estratti di lì e portati nel patio… fu domandato al comandante che che cosa fare di questi bambini e giunsero alla conclusione che sarebbero diventati una minaccia nel futuro dicendo testualmente che essi crescendo sarebbero diventati guerriglieri… per questo si ordinò la loro esecuzione in silenzio… fu quel momento che apparve il papà, con una rula in mano… i bambini gridarono papà!... egli gli diceva che non sarebbe successo niente e supplicò i comandanti di non uccidere i bambini… allora egli si inginocchiò con le mani sulla nuca… i bambini corsero verso lui… e è quando il papà, già cosciente di quello che sarebbe successo, disse al bambino che stavano per partire per un lungo viaggio e che probabilmente non sarebbero tornati… allora la bambina cerca al bambino un vestitino in una sacca, e glielo consegna dicendo addio con la mano… ".

Bolivar era riuscito a correre e proteggersi da una vicina, ma dopo un'ora, si sentì male per avere lasciato abbandonata sua moglie, Sandra Milena, di 24 anni, ed ai suoi piccoli figli, Natalia, di 5, e Santiago, di 18 mesi, e ritornò a casa sua, ad affrontare la morte. Tutti morirono e furono seppelliti dai loro assassini in una fossa vicino alla casa. I vicini che passarono di lì il giorno dopo,quando se ne erano andati gli uomini in uniforme, dissero che si vedevano solo le tracce di sangue, la terra rimossa ed un machete (…?.......)."

Secondo le testimonianze dei paramilitari, da quello stesso istante il capitano Gordillo venne a sapere quello che era successo. L'operazione congiunta continuò, tuttavia, ancora tre giorni. Praticamente fino a quando lo scandalo del massacro già compariva nella stampa di tutto il mondo. Durante quella settimana la Procura non poté andare a estrarre i cadaveri. Padre Javier Giraldo dice che l'argomento addotto dalle autorità giudiziali fu che l'Esercito aveva bisogno della protezione e del trasporto, e la Brigata aveva detto che "non aveva elicotteri disponibili." Nonostante ciò, nelle testimonianze deposte nel processo si dice che il generale Héctor Fandiño ed il colonnello Néstor Iván Duque viaggiarono in un elicottero il giovedì di quella settimana fino a dove si trovavano le truppe. Di che cosa vennero a conoscenza quel giorno o che decisioni presero è un mistero. Si sa, quello sì, che in quella stessa data i paramilitari abbandonarono la zona.

Fino a quel momento, già circa 110 persone della comunità ed osservatori internazionali erano andati a piedi a recuperare i corpi, erano arrivati alla casa di Tuberquia e circondato le fosse in attesa della Procura. Uno dei primi ad arrivare sul posto fu un ufficiale chi si presentato col suo viso altezzoso ed il suo sguardo freddo davanti ai dolenti: "Sono il capitano Gordillo e vengo ad offrirvi protezione." Quel venerdì 25 di febbraio nel pomeriggio incominciò l'esumazione. Il giorno dopo trovarono vicino al fiume i corpi di Luis Eduardo e la sua famiglia, divorati dagli animali. Tanto infami come questi crimini furono gli atti posteriori per occultarli.

Ostruzione alla giustizia?

Dal primo momento, il padre Javier Giraldo puntò il dito indicando l'Esercito come colpevole. Avevo parlato con molti contadini e le loro versioni mi convinsero di ciò", dice. Ma gli piovvero addosso delle critiche. Chi poteva immaginare che l'Esercito fosse coinvolto in un crimine nel quale le principali vittime erano bambini?

Non riposavano ancora nelle loro tombe i morti quando i mezzi di comunicazione incominciarono ad emettere le testimonianze di due possibili smobilitati delle Farc che accusavano la comunità di San José de Apartadó di avere vincoli con la guerriglia, ed assicuravano che era questa quella che aveva commesso l'atroce massacro. Gli ex guerriglieri erano Elkin Tuberquia ed Apolinar Guerra che erano sotto la tutela del colonello Néstor Iván Duque, allora comandante del Battaglione Bejarano, ascritto alla Brigata XVII. Le loro versioni erano troppo inverosimili, ma confusero enormemente all'inizio.

Dall’ altro lato, il comandante delle Forze armate, generale Carlos Alberto Ospina, si sforzò di spiegare con mappe alla mano che le coordinate di ubicazione dei militari dimostravano che si trovavano lontano dalla zona dei fatti. Si è venuti a conoscenza del fatto che un ufficiale aveva ordinato di alterare l'ubicazione dallo stesso momento in cui si era sviluppata l'operazione. Come se non bastasse, lo stesso governo, prima di denunciare il massacro e sollecitare perché si facesse chiarezza, processò la comunità per il suo atteggiamento negativo rispetto alla presenza di militari e poliziotti nella zona.

La giustizia si trovava nel crocevia tra l’evidenza che il massacro era stato compiuto da militari e paramilitari, e il non saper da dove cominciare, perché la comunità di pace si rifiutava di parlare. Fu la testimonianza di “Mataza” che iniziò a districare la matassa.

La giustizia agisce

Tutto sarebbe potuto rimanere nell'ombra dell'impunità se non fosse stato per la diligente azione di un pubblico ministero. Dal momento che la comunità di pace, paralizzata dalla sfiducia, non volle parlare con la giustizia, i pubblici ministeri e gli investigatori della Procura incominciarono a cercare evidenze da un lato e dall’altro. Due anni fa la Procura, in un atto inusuale e perfino insolito, richiamò ad istruttoria 60 militari della Brigata XVII sospettati di aver partecipato ai fatti, per cercare di rompere il patto di silenzio che, apparentemente, si era creato.

Alla fine del 2007 la storia avrebbe avuto un punto di svolta. 'Melaza' era stato catturato nel corso delle indagini che venivano condotte per la morte di Carlos Castano. Benché in principio egli doveva partecipare all'assalto al massimo capo delle AUC, fu poi sostituito e alla fine non vi assistette. Era stato già assolto e quando praticamente aveva già lo scontrino di libertà nelle sue mani per ritornare in strada, un pubblico ministero ricordò che in un libro di Germán Castro Caycedo si menzionava un 'Melaza' associato al massacro di San José de Apartadó. E lo chiamarono a deporre per questo caso. 'Melaza' indovinò solo a dire: “Io non ammazzai quei bambini."

Dalla prigione di Itagüí, dove parlò con SEMANA, l'ex paramililtare ratifica la sua versione: "Lo Stato chiede la verità, ma per quale motivo, se non può sopportarla." La testimonianza di 'Melaza' incriminò dal primo momento il capitano Gordillo. E questo a sua volta ha coinvolto i suoi superiori, dicendo che nel novembre del 2007 “mi incontrai col mio generale, Fandiño, in un appartamento della 106. Mi mostrò la dichiarazione di alias 'Melaza' e disse che la cosa più probabile era che mi chiamassero per l’istruttoria... mi disse che in nessun momento dovevo dire che c’erano guide civili armate, né alcun altro personale al di là dei soldati… che c'erano già dichiarazioni di due informatori delle Farc, Tuberquia e Guerra, che avevano detto che quelle persone le avevano ammazzate quelli del fronte 58."

Ma la fortuna di Gordillo era segnata. Alla fine di quel mese fu catturato. Poco dopo, venuto a conoscenza dell’accusa contro di lui, si rese conto che non aveva niente da fare. Si dichiarò colpevole e ricevette una sentenza anticipata. Confessò che le sue truppe pattugliavano con i paramilitari, e la giustizia capì che lo facevano per commettere atti di terrore e barbarie. Per quel motivo oggi 10 militari sono chiamati a giudizio, tra essi il colonnello Espinosa ed il maggiore Castaño. Il pubblico ministero Mario Iguarán annunciò che si indagherà anche sul generale Héctor Fandiño, il comandante della Brigata a quel tempo.

Per lo meno sei dei paramilitari che parteciparono al massacro sono morti. Alias '44' che conosceva elementi chiave di quello che accadde, fu assassinato a Valencia, Córdoba, l'anno scorso. 'Melaza' e 'Kiko' sono in stretta custodia in carcere, per le minacce che hanno subito.

La storia ha dato ragione al vituperato sacerdote Javier Giraldo. La sua tesi, che sembrava inconcepibile, a poco a poco si conferma, nonostante egli stesso si trovi alle porte della prigione per una denuncia per calunnia da parte del colonnello Duque e alla quale Giraldo ha risposto con una radicale obiezione di coscienza, rifiutandosi di presentarsi davanti al tribunale e di rendere testimonianza.

Per quei paradossi della guerra, l'uomo forte delle Farc a San José de Apartadó, 'Samir', che gli stessi militari incolpavano del massacro, si smobilitò a dicembre e da allora accompagna la Brigata XVII nelle operazioni in tutta Urabá. La sua testimonianza sarà chiave in questo caso.

La giustizia tenta di sviscerare i punti interrogativi che lascia ancora insoluti questa complessa indagine. Chi programmò l'operazione congiunta? Si trattò di una vendetta contro la comunità per le azioni delle Farc? Ci fu intenzione di sviare alla giustizia?

Nel frattempo, Gordillo, senza ombra di rimorso negli occhi, aspetta la sua condanna in una prigione militare. Da un'altra prigione castrense, i 10 militari che andranno a giudizio negano fino ad ora tutto l’accaduto.

mercoledì 1 aprile 2009

E LO STATO DIVENNE IL VERO TERRORISTA

Colombia - "Falsos Positivos"
Un paio d'anni fa, circa, iniziai a sentir parlare dai difensori dei diritti umani in Colombia, il p.Javier Giraldo, Ivan Cepeda, il Collettivo Abogados Alvear Restrepo, e da molti altri compagni di cammino di Falsos Positivos, non riuscivo a capire. Ci scambiammo qualche riflessione e apparve chiaro che quando si uccide un essere umano si commette un crimine, quando è lo stato che compie l'omicidio è ancora più grave, quando poi lo stato lo presenta come successo nella sua lotta al terrorismo allora ci troviamo davanti ad una aberrazione della coscienza, se poi diventa una pratica per ottenere qualche giorno di licenza allora siamo alla disumanizzazione. Poi un giorno, il 4 marzo del 2006, ci arriva dalla Comunità di Pace di San José de Apartadò una denuncia sulla sparizione forzata, da parte di membri dell'esercito colombiano, con annesso incendio della abitazione,di una giovane contadina di 18 anni Nelly Johana Durango, nella zona della Resbalosa, che fa parte della Comunità di Pace. Il corpo di Nelly fu ritrovato alcuni giorni dopo, nel municipio di Tierra Alta, dipartimento di Cordoba. Secondo l'esercito era il corpo di una guerrigliera morta in combattimento. I famigliari riconobbero il corpo di una giovane estranea ai gruppi armati il cui unico peccato era quello di vivere in una zona di guerra sulla quale esistono molti interessi economici e militari e dove chi non fa parte del conflitto viene dichiarato obiettivo militare degli attori armati legali e illegali. Il cadavere di Nelly, al momento del ritrovamento, indossava una divisa militare almeno tre taglie più grandi della sua. Allora ho capito. Oggi è scoppiato lo scandalo, alcuni ufficiali sono stati arrestati, speriamo solo che non sia la solita cortina di fumo.

Di seguito l'articolo uscito su Il Manifesto il 19.03.2009 e un intrevento audio che troverete qui http://agenziami.it/subsection/6/34/Esteri/Americhe/ entrambi di Guido Piccoli sui Falsi Positivi. Leggete ed ascoltate. Può tornarci utile.
Carla Mariani, Volontaria Rete Italiana di Solidarietà


09. IL MANIFESTO INTERNAZIONALE 19.03.2009 APERTURA | di Guido Piccoli
E LO STATO DIVENNE IL VERO TERRORISTA. Colombia DEI FANTASMI.
Scoppia lo scandalo dei «falsi positivi»: l'esercito uccide innocenti e li veste da guerriglieri. Per soldi, mostrine, licenze. Rimossi 27 ufficiali. Ma il capo, il generale Montoya, viene promosso ambasciatore Quando si parla di terrorismo in Colombia si è indotti a pensare alla guerriglia, anzi alla «narcoguerriglia, com'è definita dalla gran parte della stampa. Paragonati non solo ai gruppi paramilitari ma anche all'esercito, però, i ribelli appaiono degli angioletti. Anche quelli delle Farc, nonostante i crimini e i frequenti «errori» nelle loro attività (che vanno dai sequestri di civili agli omicidi di persone non combattenti, per arrivare all'uso delle mine antipersona e delle bombole a gas trasformate artigianalmente in ordigni). Non si tratta di assolvere il male col peggio, ma di raccontare la realtà per quella che è, squarciando il velo di falsità e ipocrisia che nasconde il maggiore protagonista del terrorismo nel paese: cioè lo stato, con gli agenti legali e quelli clandestini. Le dittature latinoamericane dei decenni scorsi, poco importa se con giunte infarcite di militari o civili, crearono macchine di morte capaci di crimini su larga scala e fino ad allora sconosciuti come le cosiddette «sparizioni forzate». Ma quelle erano dittature e combattevano le «guerre di bassa intensità», proclamate dagli Usa di John F. Kennedy. Ma lo scandalo detto dei «falsi positivi», che dopo anni di denunce affiora finalmente anche fuori dai confini colombiani è ben più ignobile. Perché realizzato da una presunta democrazia e perché manca di una qualunque giustificazione ideologica. Per falsi positivi s'intendono le montature organizzate dai militari per prendersi meriti rispetto al potere politico e, al loro interno, con i superiori. Negli anni 90, erano soprattutto attentati da attribuire alle Farc o a Pablo Escobar, quando questi cominciò a perdere potere e amici potenti: una strategia della tensione alla colombiana che aveva pur sempre un fine politico. Poi si cominciarono ad ammazzare degli sconosciuti, presi a caso nella campagne e costretti ad indossare tute mimetiche prima di essere uccisi. «Mi arrivavano denunce, che trasmettevo regolarmente a Washington, di cadaveri insanguinati dentro uniformi che non avevano un solo foro. Non occorreva essere Einstein per capire» ha ammesso pochi giorni fa al New Herald Myles Frechette, ambasciatore statunitense a Bogotà dal 1994 al 1997. La pratica assassina, passata inosservata fin quando ad essere ammazzati erano umili contadini, emerse nel novembre 2005 quando nella regione di Cordoba un plotone della XI° brigata uccise e presentò paradossalmente come guerrigliero il fratello latifondista di Eleonora Pineda, senatrice filo-Auc e amica di Uribe (e attualmente detenuta per paramilitarismo). Tutti i delitti, compreso questo ultimo, rimasero impuniti grazie al gioco di squadra delle più alte cariche dello stato: del presidente Uribe e del ministro della difesa Juan Manuel Santos fino ai comandanti militari e ai diversi giudici, intimoriti o complici, che usavano ogni cavillo per insabbiare indagini e processi. La paura costringeva al silenzio i familiari delle vittime. L'impunità indusse gli assassini ad organizzare un vero e proprio commercio d'innocenti, spesso sequestrati con l'inganno anche nelle periferie delle grandi città, trasportati nelle regioni di conflitto del paese e ammazzati senza pietà. Nel settembre scorso lo scandalo dei «falsi positivi» scoppiò a Soacha, un quartiere meridionale di Bogotà, grazie al coraggio di un funzionario comunale e alla disperazione dei parenti di una ventina di ragazzi denunciati come desaparecidos e ritrovati (alcuni già il giorno dopo) cadaveri nell'obitorio di Ocaña, una cittadina nord-orientale distante 500 chilometri dalla capitale, e presentati dalla locale brigata come sovversivi «caduti in combattimento». Poprio ad Ocaña, mesi prima, un sergente aveva denunciato che nel suo battaglione i soldati erano premiati con cinque giorni di licenza per ogni nemico ucciso: venne espulso dall'esercito. Dopo Soacha si conobbero casi simili in tutto il paese. Inizialmente Uribe e i suoi uomini negarono ogni responsabilità dell'esercito. «Dicono che da qualche parte ci sono settori delle nostre forze armate che misurano i loro successi con i cadaveri, stento a credere che sia vero» disse il ministro della difesa Juan Manuel Santos. In realtà, il body counting era il logico effetto delle pressanti richieste fatte da Uribe ai vertici delle forze armate di mostrare risultati nella loro guerra alla sovversione. Per qualche giorno Uribe continuò a difendere l'esercito, arrivando ad insultare le vittime: «Se sono finiti in quella regione non è certo per raccogliere caffè», disse due giorni prima di cambiare sorprendentemente atteggiamento, ammettendo l'esistenza nella truppa di qualche pecora nera. A fine ottobre il gran colpo ad effetto della rimozione di tre generali e una ventina di altri ufficiali e sottufficiali, coinvolti nel massacro. E, per ultimo, le dimissioni forzate del comandante in capo dell'esercito Mario Montoya, il generale che Ingrid Betancourt abbracciò appena libera. La stampa parlò di depurazione e gran repulisti. In realtà nessuno degli implicati è finito in galera. Al massimo qualcuno ha dovuto cambiare lavoro passando, come tanti paramilitari smobilitati, al soldo delle potenti compagnie di sicurezza private. Montoya, che già annoverava un bel passato criminale (come organizzatore degli squadroni della morte e collaboratore delle bande paramilitari), è stato premiato da Uribe con la nomina ad ambasciatore a Santo Domingo. E' molto probabile che anche questo scandalo rimanga quindi impunito, grazie all'efficace copione di sempre, diviso in tre capitoli. Finchè si può, si negano le denunce dei familiari delle vittime o degli organismi di difesa dei diritti umani e si giura sull'onore dei militari (e nel mentre magari si assoldano sicari per far tacere i testimoni più testardi). Poi si finge di sacrificare qualche pecora nera o si fabbrica un capro espiatorio. Alla fine, spenti i riflettori, si salvano le pecore nere (quando non si premiano senza pudore, come nel caso di Montoya) o, nei casi estremi, si eliminano, pur di perpetuare un sistema di potere mafioso e assassino spacciato per democratico. «Ma quale democrazia? Ti sequestrano, t'ammazzano e ti danno il colpo di grazia» urlavano nella manifestazione del 6 marzo scorso i parenti dei ragazzi uccisi in nome della «sicurezza democratica» di Uribe. La speranza di ottenere giustizia per questa carneficina punendo anche i suoi responsabili maggiori, come Uribe e Santos, risiede lontano dalle aule giudiziarie colombiane, nel rigore della Corte penale internazionale e, ovviamente, nella valutazione politica degli Usa, i veri sovrani della Colombia. Non si sa dove sia meglio, o peggio, deposta.