mercoledì 30 gennaio 2008

Operazione Colomba visita la CdP di San Josè de Apartadò


Operazione Colomba in Colombia: visita alla comunità di pace

venerdì 25 gennaio 2008

1) Non partecipare alla guerra in modo diretto o indiretto;
2) Non detenere armi di nesssun tipo;
3) Astenersi dal dare appoggio alle parti in conflitto;
4) Non chiedere aiuto a persone armate per risolvere problemi personali o familiari;
5) Non manipolare ne dare informazioni a nessuna delle parti in lotta;
6) Impegnarsi a partecipare ai lavori comunitari ed a non accettare ingiustizia e impunità rispetto a quello che succede

Sono questi gli impegni che si trovano scritti su un cartello all'ingresso della “comunità di pace” di San Josesito de la Dignidad. Quando li leggiamo abbiamo subito l'impressione di trovarci di fronte ad una esperienza particolare.
Ci troviamo nella zona nord ovest della Colombia, nel dipartimento di Antioquia, regione di Urabà, municipio di Apartadò.

Siamo arrivati fin qui come Operazione Colomba perchè ci è stato detto che l'esperienza di questa comunità è veramente interessante e da sostenere fortemente.
Ci troviamo nel cuore della foresta, vicino all'Amazzonia, un clima tropicale caldo e umido. Il paesaggio è completamente diverso da quello occidentale, molto verde, ricco di frutta ed animali. In quest'area, contesa dalle FARC, dall'esercito governativo e dai paramilitari, sorgono i villaggi in cui è nata, e si sta sviluppando, l'esperienza delle comunità di pace: San Josesito, la Union e Arenas Altas. Circa 1300 campesinos (contadini) con le loro famiglie vivono rifiutando le armi e la violenza.
Dopo che, fra la fine del 1996 e l'inizio del '97, i gruppi paramilitari commisero due massacri nel territorio di San Josè de Apartadò, è aumentato lo sfollamento forzato delle famiglie verso altri luoghi. Di fronte a questa situazione e conoscendo la gravità del problema dello sfollamento forzato a livello nazionale, (la Colombia è il terzo paese al mondo per numero di sfollati, dopo il Congo ed il Sudan) il Vescovo della Diocesi di Apartadò, Monsignor Isaías Duarte Cansino (assassinato successivamente nella città di Cali), propose la costituzione di spazi neutrali dove fosse garantito il rispetto alla vita e all'integrità della popolazione civile.
Fu avviato così un percorso di riflessione che portò alla creazione della comunità di pace.

In uno spazio piano, a ridosso della montagna, c'è situato San Josesito. Il villaggio è fatto di baracche in legno; ci vivono 70 famiglie e molti bambini. Fino a tre anni fa qui non c'era niente. Dopo il massacro del 2005, dove sono morte 8 persone ad opera dei militari regolari, lo Stato, con la scusa della sicurezza, ha imposto un presidio permanente di polizia a San Josè. Da sempre la gente abitava in questo villaggio con case in muratura e alcuni servizi. Non potendo accettare però un presidio di polizia imposto arbitrariamente dal governo di Bogotà, perchè contrario allo statuto della comunità, la gente si è spostata di 300 metri e velocemente in tre anni ha ricostruito dal nulla un nuovo villaggio dove attualmente la vive, San Josesito appunto.
Entrando c'è l'incontro con una realtà molto semplice, dai colori e dai sapori completamente diversi da quelli occidentali a cui siamo abituati. Ci sono donne, uomini, bambini, cavalli, cani, maialini, galline e anatre. Non ci sono macchine, o altri mezzi di trasporto a motore, neanche biciclette, solo cavalli, muli, asini per gli spostamenti (alcuni villaggi sono anche a 5 – 6 ore di cammino, all'interno della foresta).
L'unico segnale di modernità sono i piccoli pannelli solari che servono ad illuminare le baracche, a fare andare i rari televisori presenti in comunità e un piccolo ristorantino, appena inaugurato, costruito grazie al contributo di “Cucineros sin Fronteras”. Con 100 pesos si può telefonare dall'unico punto in cui il cellulare ad uso comunitario capta il segnale. In fondo al villaggio c'è una struttura a forma di capanna, grande, che è un po' il cuore della comunità: qui sotto si riunisce la comunità per decidere, si fanno le feste (molto belle e colorate al ritmo della musica caraibica), si fanno i momenti di preghiera ecumenici.
Un altro luogo significativo è il monumento composto da singole pietre colorate, ciascuna con sopra scritto il nome di un membro della comunità ucciso in questi anni dai militari, dai paramilitari o dalla guerriglia.
La vita è incentrata molto sui lavori comunitari: insieme si lavora la terra che appartiene alla comunità, insieme si prendono le decisioni.
Il tutto non sa di antico, mancante cioè di quella modernità che per noi vuol dire comodità e tecnologia, no, sa proprio di uno stile di vita differente, completamente “altro” rispetto al nostro. Quindi molta semplicità e genuinità.
Paradossalmente in comunità si respira anche serenità e a tratti gioia. Questa impressione che abbiamo avuto nei pochi giorni di permanenza sul posto, ci viene confermata dai volontari nord americani del FOR (Fellowship of Reconciliation) da un anno presenti sul posto. Loro stessi ci dicono che nei villaggi intorno la gente è molto più tesa e cupa. Dico “paradossalmente” perchè questa comunità, ed in genere i campesinos della zona, stanno pagando un prezzo molto alto per la loro scelta di rimanere li senza sfollare altrove. Più di 180 sono stati i morti ad opera della guerriglia ma soprattutto dei militari di stanza sul posto e dei paramilitari. L'ultima ad aver perso la vita è stata la signora Margarita che il 24 Dicembre è stata fatta saltare per aria da una bomba lanciata dai soldati, mentre raccoglieva l'erba in un campo.

L'impatto per noi stranieri è molto forte, è una esperienza di nonviolenza vissuta carica di significato.
Una comunità fatta di più di 1000 persone, perseguitata, colpita nei suoi leaders, nei suoi bambini, che non odia, non progetta vendetta, non risponde prendendo le armi in mano ma va avanti, resistendo, fedele alla sua scelta di nonviolenza attiva (l'alcool è stato del tutto abolito perchè causa di violenze intrafamiliari e intracomunitarie, il livello di violenza è tenuto molto basso e i leaders sono deputati a facilitare la risoluzione di eventuali contese in maniera nonviolenta), una comunità che lotta per avere vita, dignità e rispetto.
Ora capiamo perchè un gruppo nordamericano l'ha proposta lo scorso anno per il Premio Nobel per la pace.


Alcune testimonianze dirette

Un leader della comunità:

Questa lotta ci ha diviso: la Colombia ha un conflitto interno da più di 40, 50 anni.
Lo Stato lo ha sempre nascosto, il presidente Uribe non ne parla mai.
La conseguenza più grossa è che viene sterminato un popolo.
Noi vogliamo mostrare questa realtà,per questo cerchiamo e abbiamo bisogno di appoggio internazionale, perchè in Colombia non abbiamo appoggi ma "siamo noi che ci mettiamo la carne, siamo noi che ci mettiamo il sangue, noi ci mettiamo i morti”.
Noi siamo campesinos, poveri ma siamo esseri umani.
Ci siamo organizzati in questa forma perchè era l'unica possibile per una comunità che cerca vita e dignità. Non vogliamo soldi ma rispetto e diritti.
A chi ci vuole aiutare diciamo: aiutateci facendo fare pressione dai vostri governi sul governo colombiano. Al governo chiediamo di farci uscire dalla miseria, gli chiediamo vita, salute, educazione, inserimento sociale. Lo stato non rispetta il nostro diritto alla vita come punto centrale perchè qui si muore a causa della guerra.
Noi chiediamo il diritto alla terra di origine delle nostre famiglie e non regali (non c'è certificato di proprietà ma da sempre la terra è coltivata dalle loro famiglie). Se sfolliamo lo stato vende la nostra terra ai ricchi.
Noi vogliamo lavorare e vivere in pace, non vogliamo essere vittime di questo conflitto che non ci appartiene. Non vogliamo armi e non ci alleiamo con chi le porta e le usa.

Una ragazza di 16 anni, Y., ci parla della sua esperienza nella comunità di pace:

Abito qui a Union da 10 anni. Ho dovuto vivere tutto quello che è successo in questa comunità, ma il momento più terribile fu 8 anni fa, quando uccisero 6 persone.
Avevo 8 anni. Una sera ero in casa tranquilla a fare le solite cose quando sono arrivati i paramilitari e hanno preso il signor Eliodino che si stava lavando.
Loro sono arrivati al villaggio e hanno radunato tutta la comunità. Subito ci siamo chiusi dentro e ci siamo buttati per terra.
Quando siamo usciti abbiamo trovato 6 morti sotto casa e i parenti che piangevano. Perchè hanno radunato tutti e ne hanno scelto 6?
Una mamma vide in diretta la morte dei suoi due figli, Rigoberto Gusmann e Jaime Gusmann. Rigoberto aveva moglie e figli. I figli e la moglie piangevano. A me ha fatto molta paura vedere i 2 figli di Rigoberto su di lui e la moglie che gli scuoteva la testa per vedere se era vivo.
Dopo tre giorni è venuto un elicottero del governo per ricomporre i corpi dei morti ma non ha potuto farlo perchè stavano marcendo e allora li hanno lasciati lì altri 3 giorni. In questo tempo noi bambini abbiamo vigilato sui corpi per non farli mangiare dai cani.
Dopo sono tornati i signori del governo che hanno ricomposto i corpi rendendoli presentabili e dopo hanno fatto il funerale e sono stati sepolti nel cimitero della comunità.
Qui ad Union abbiamo un monumento fatto di pietre, ogni pietra porta inciso un nome di persona uccisa e il posto della morte. Noi li andiamo sempre a vedere e li ricordiamo.
Nemmeno oggi vivo tranquilla. Ho molta paura e sono nervosa quando vedo i militari. Quando non ci sono, io sono più tranquilla.
Voglio pace, tranquillità, basta guerra e gente morta. L'unica cosa che voglio è stare tranquilla”.

B., mamma di 5 figli:

Sono nata 41 anni fa qui, ho 5 figli. Viviamo una situazione difficile. Vivo la preoccupazione per i figli e non solo per i miei ma per tutti i nostri bambini della comunità.
Per noi l'educazione formale che da’ lo Stato è una preoccupazione costante.
I Contenuti dei programmi non sono coerenti con la realtà dei nostri popoli indigeni. Questa educazione ci fa perdere la nostra propria cultura, l'identità del nostro popolo che si concentra nella terra.
I nostri bimbi sono condizionati e toccati dal vedere i militari e la guerriglia che girano intorno alla nostra comunità, per loro questo è spazio di gioco e di vita. Questi attori armati hanno un impatto molto negativo sull’infanzia e sulla crescita dei nostri figli.
La nostra comunità di pace denuncia il fatto che lo Stato fa un investimento brutale sulle armi dimenticando i bisogni essenziali: sanità, educazione, vita e dignità.


Vedere tutta questa gente che continuamente minaccia la comunità di pace, è dura, e mentre il governo dice sui media che uccidendo noi uccidono dei guerriglieri, la strage va avanti e le uccisioni non terminano.
Secondo me si potrebbe però uscire da questa situazione con il sostegno politico di associazioni internazionali e con l’arrivo di gruppi disposti a vivere qui con noi: ci danno molta sicurezza gli stranieri presenti, sicurezza per la nostra stessa vita.
…Io come persona guardo molto al Signore Gesù, curo molto la mia fede. Credo che il mio unico cammino sia avere speranza in Dio”.

Torniamo in Italia avendo toccato con mano ancora una volta che la nonviolenza attiva è possibile viverla (e non solo a livello personale) e che questa esperienza così forte e significativa va assolutamente sostenuta!

I volontari dell’Operazione Colomba
Corpo Nonviolento di Pace della
Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII

ULTERIORI FOTO NELLA APPOSITA SEZIONE DEL SITO
www.operazionecolomba.it

SITO UFFICIALE DELLA COMUNITA’ DI PACE DI SAN JOSE’ DE APARTADO’
www.cdpsanjose.org

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